

Siamo andati al Museo Ferruccio Lamborghini di Funo di Argelato per farci raccontare un padre da un figlio, e per approfondire ciò che ha spinto quest’ultimo a dedicargli uno spazio che pensavamo di conoscere abbastanza bene. Oggi, nel giorno dell’anniversario della nascita di Ferruccio, possiamo dire che tutto questo ha assunto per noi un altro significato. Cercheremo di restituirvelo: la nostra chiacchierata con Tonino Lamborghini è iniziata su un comodo divano di una sala vicino all’ingresso…
Appena morto mio padre feci un museo che è tanto più bello di questo — ma tanto più bello di questo — fatto però a Dosso, un paesino a due passi da Cento. L’ha disegnato l’architetto Oreste Diversi di Imola, che ha saputo interpretare in maniera eccelsa un’idea che avevo. Nel giro di pochi giorni mi ha presentato lo schizzo ed era esattamente quello che volevo. Cioè, tutto sommato, un contenitore fatto a mo’ di aereo spaziale, o se si vuole a forma di grande rondine, che con un gioco di luci notturne e con la nebbia tipica della zona, sembra sollevarsi dal terreno. Perché una nave spaziale? Perché va verso il cielo, presumibilmente verso il creatore delle cose contenute al suo interno. È stato lì per oltre vent’anni, poi pian piano i visitatori erano sempre meno, chi lo doveva vedere l’aveva visto… Dopodiché mi si è liberato questo stabilimento, che ho rivisitato completamente.
Tutto questo che emozioni mi dà? Beh, onoro mio padre, onoro mia madre: l’azienda è nata da questi due giovani ragazzi che si sposarono. Uno faceva il meccanico, l’altra l’amministrazione. Da lì è nato un mito.
Ho cominciato a cercare i vecchi trattori Lamborghini che ero appena appena un ragazzino, quattordici o quindici anni. Li cercavo andando nelle aie dei contadini. Poi c’era qualche operaio che mi dava una dritta, «guarda che là ho visto che forse…», allora andavo sotto falso nome con la mia Vespa. Non avevo ancora la patente. Sotto falso nome perché se avessi detto che mi chiamavo Lamborghini me li avrebbero venduti a tre volte tanto il valore. Una cosa bella e curiosa è che li trovai in ordine cronologico: il primo modello, il secondo, e così via. Come fai a trovare roba vecchia, dismessa dal contadino e che non si metteva neanche in moto, in quest’ordine? Per me è stato un segno del destino. Davvero lassù qualcuno ci ama.
Mio padre non era molto contento che io perdessi tempo a cercare questa roba e a ripristinarla anziché studiare. Io, di nascosto, lo facevo comunque. Non solo: fin da bambino ho cominciato a conservare i pezzi del suo ufficio, muovendomi sempre di nascosto. Mio padre non ha mai saputo che avevo il primo ufficio della loro prima piccola officina. Come fa un bambino di sì e no dieci anni a nascondere e conservare un ufficio? Non potevo avere già in mente la realizzazione di un futuro museo all’epoca: lo facevo e basta. Ancora mi chiedo come ciò sia stato possibile.
Solo mia madre sapeva qualcosa, non tutto tutto… solo qualcosa. «La roba vecchia muore a casa dei c******i», sosteneva invece mio padre, citando un detto emiliano. A casa mia infatti non c’era un mobile antico. La roba che aveva più di cinque o sei anni veniva regalata. Per lui bisognava guardare avanti, lasciandosi alle spalle il passato.
Molto tempo dopo, un po’ cambiò idea. Quando cominciai a fargli vedere la mia raccolta di trattori e di qualche auto – non tutte quelle che ci sono oggi perché non me le potevo permettere – non rimase indifferente. Gli misi in moto il primo trattore Carioca: pum, pum pum… e gli vennero gli occhi lucidi. Pensavo si sarebbe incazzato, invece appoggiò la sua mano sulla mia spalla e disse: «Bravo, bravo. Avevo la tua età e tanti debiti. Continua, continua…». «Un giorno farai un museo, e ricordati: fallo vicino a un’autostrada». Disse anche questo. Da quel momento qualche volta mi aiutò finanziariamente nel mio progetto, per aiutarmi a comprare i pezzi più costosi.
«Gli misi in moto il primo trattore Carioca: pum, pum, pum… e gli vennero gli occhi lucidi.»
Com’era mio padre? L’unica cosa che dico è che una volta i padri erano diversi da oggi. Non c’era la confidenza, un padre non giocava coi figli. Magari l’amore era il medesimo, ma l’atteggiamento era diverso. Questo però valeva per tutti, dal primo all’ultimo.
Circa il fatto poi se mi rendessi conto da ragazzino di quello che stava creando: ni. Mi rendevo conto che cominciare a produrre automobili dava una notorietà mondiale anziché nazionale. Mi rendevo conto che era stata creata la vettura più moderna del momento — non solo per un fatto estetico — e che pochi mesi dopo il suo lancio era stata acquistata dal MoMa di New York — la Miura. Però, siccome ci nasci in mezzo, tutto è naturale. Com’era naturale che mio padre mi desse la Miura per farla provare ai miei amici. Grande intuizione la sua: è chi non sa guidare che riconosce se è buona la macchina, se è difficile o facile da guidare. È chiaro che un pilota sa usare il cambio e la frizione… Mi rendevo conto poi che al paesello ero figlio di Lamborghini quello che fa i trattori, che gli altri andavano a scuola in bicicletta e che a me portavano in macchina, in parte però anche per la distanza. Ma lo vivevo in maniera normale.
Quando al Museo sono da solo, ogni tanto mi capita di sedermi nel suo ufficio, in cerca di concentrazione. Un’altra cosa che mi piace fare poi… Tonino riflette… ecco! C’è una vecchia Alfa Romeo che io amo molto. È quella che mi portava a scuola. Ogni tanto salgo su quella macchina, e sto lì un quarto d’ora a ricordare il mio passato, io da bambino.
Andiamo.
Ci alziamo dal divano e ci incamminiamo verso l’area dedicata ai Trattori Lamborghini.
Da che parte cominciamo? Cominciamo da quel trattore arancione che è il primo, il Carioca del ‘48. Quello che avevo messo in moto davanti a mio padre e grazie al quale mi ero guadagnato il suo supporto.
Tonino ci mostra di sfuggita una Jeep, spiegandoci che i primi trattori sono di derivazione bellica, oltre ad illustrarci alcune caratteristiche meccaniche del mezzo. Ci renderemo conto di lì a poco della sua grande conoscenza tecnica, oltre che storica, dei pezzi esposti e non solo. Davanti al Carioca si sofferma in particolare sul funzionamento del brevetto che lo ha reso celebre: il vaporizzatore del petrolio. Non del gasolio, ci tiene a sottolineare. Petrolio che costava poco, era facilmente reperibile, e dunque rendeva il mezzo estremamente competitivo sul mercato.
Ci racconta anche un aneddoto che lo appassiona particolarmente. La premessa è che nel 1949 entrò in vigore la Legge Fanfani, che per incentivare la produzione nazionale aiutava fiscalmente e finanziariamente il contadino o l’azienda — soprattutto il contadino — che fosse stato in grado di produrre un trattore tutto italiano…
Bisognava correre a fare un prodotto tutto italiano: ma come fare in pochi mesi? Gara dura. Allora mio padre, che all’epoca non era nessuno, va in Germania da un’azienda che produceva motori, la MWM, chiedendogli se poteva avere il loro motore a licenza. Questi lo guardano e si mettono a ridere. Al che lui risponde: «Beh, se me lo date a licenza bene, altrimenti io ve lo copio». Fu evidentemente abbastanza convincente da ottenere la licenza. A quel punto torna a casa e comincia a montare questi motori sui trattori (per il resto completamente italiani). Un anno dopo, quel motore viene talmente modificato che mio padre ritorna in Germania alla MWM dicendo: «Ecco, questo è il mio motore: provatelo. Se vi piace, sarete voi a pagare me». Detto fatto: l’ultimo degli italiani che vende il suo prodotto alla Germania. Una storia che mi fa venire i brividi.
Sfiliamo in mezzo a delle piccole vetture che Ferruccio fece per se stesso, compresa quella con cui corse la Mille Miglia. Lo stesso Tonino le ha guidate e le definisce delle «schegge». Poi si sofferma su un dettaglio del Museo che non tutti i visitatori colgono…
«Com’era naturale che mio padre mi desse la Miura per farla provare ai miei amici. Grande intuizione la sua: è chi non sa guidare che riconosce se è buona la macchina, se è difficile o facile da guidare.»
Perché vedete la macchina da scrivere, il ciclostile, il motorino, la motocicletta, il mangiadischi, l’aspirapolvere, il primo televisore portatile eccetera eccetera? Perché mi piace far vedere quello che avveniva nel mondo attorno ai prodotti Lamborghini, fare dei parallelismi tra le cose coeve. Qual era la moto del momento, con cosa si scriveva…
Un altro pezzo richiama la sua attenzione e improvvisamente passiamo ad altri intensi racconti, dove Tonino si impegna a farci capire quanto i prodotti Lamborghini fossero tecnologicamente all’avanguardia. Come un bambino attratto da tutto ciò che lo circonda, non fosse per i dettagli che padroneggia si direbbe che è la sua prima volta al Museo. Un trattore, un elicottero, una Fiat Topolino, e ci spostiamo in un’altra sala. Qui vediamo anche la produzione Lamborghini di caldaie, bruciatori e condizionatori degli anni ‘60, che per il periodo, ci dice Tonino, inquinavano molto meno degli altri. E tanto altro: una Porsche, la Vespa, una rarissima Fiat 1004, la Giulietta, «fidanzata degli italiani».
Vi voglio far vedere una chicca…
Andiamo in una saletta più appartata e ci troviamo di fronte ad un vecchio trattore arrugginito, consumato dagli anni.
Venite a vedere il tempo… Questo è il tempo: è quel trattore arancione che abbiamo visto prima, attraverso 75 anni di tempo che lo ha corroso. Io trovo che sia un’opera d’arte. Perché se lo vogliamo fare apposta non ci si riesce.
Passiamo anche a fianco della celebre frizione della Ferrari di Ferruccio Lamborghini che scatenò il litigio con Enzo Ferrari.
Se non ci fosse stato quel litigio, forse le Automobili Lamborghini non sarebbero mai nate.
Entriamo quindi nella sala dedicata alle vetture più celebri del marchio emiliano, dove Tonino può prendere fiato.
Qui non ho niente da raccontare perché ne sapete molto più di me.
In silenzio capiamo il senso del discorso, ma dubitiamo.
In mezzo a queste icone dell’automobilismo c’è anche l’offshore Fast 45 Diablo Classe 1 di 13 metri e mezzo con motore Lamborghini, 11 volte campione del mondo: Toro che ha fatto della superficie dell’acqua il suo asfalto. È rosso, ma non come il rosso della Miura SV personale di Ferruccio Lamborghini. Una tonalità inconfondibile che fa da sfondo ai suoi occhi e alle sue ciglia. Difficile distogliere lo sguardo quando è nelle vicinanze. Per quanti fiumi di parole siano stati versati su questa dea, Tonino qualcosa ce lo deve dire.
Ma uno dice «ma perché ha avuto successo»? Ma caspita! Dove c’è tecnologia passi alla storia. La gente guarda la bellezza della linea, ma bisogna vedere cosa c’è sotto. Bella fuori e bella dentro.
Parliamo allora della squadra che l’ha plasmata: i tecnici Dallara e Stanzani, il carrozziere Bertone, il designer Gandini… Ferruccio Lamborghini capiva la terra, capiva la meccanica e capiva anche le persone. Ha sempre scelto collaboratori brillanti e ci siamo domandati se ‘intuizione’ potesse essere una parola in grado di racchiuderlo.
Raramente sbagliava con un dirigente, un ingegnere, un operaio. Rarissimamente. Aveva un fiuto incredibile. Anche se passava un cinno — espressione bolognese per ‘bambino’ — gli diceva: «Te! Vai ancora a scuola? Vieni a lavorare da me appena hai finito», e poi ci azzeccava.
Un aneddoto che consente a Tonino di dirci la sua sulle origini della Terra dei Motori.
Perché la Motor Valley è nata qua? Perché c’erano le scuole Aldini-Valeriani, nate alla fine dell’Ottocento. E perché a Cento, dov’è nata la Lamborghini, dov’è nata la VM… c’era la scuola dei fratelli Taddia. Erano scuole di avviamento professionale. Quasi tutti i nostri tecnici non erano ingegneri — solo due — ma erano tutti periti meccanici. Gente che sapeva sporcarsi le mani, laddove l’ingegnere invece era più teorico. Perché son nati tutti qua? Fratelli Maserati, Ducati, Bugatti, e tanti altri? Grazie a queste scuole. Ora io non so se Bugatti sia mai stato alle Aldini Valeriani… Tuttavia: onore al merito di queste due scuole. A Bologna, dove mio padre andò a scuola con quel motorino che vedete là — ce lo indica — facendo avanti e indré, ci fu questa ditta che era sui Viali, Officine Righi, che aveva l’esclusiva della revisione dei mezzi militari. Andando a lavorare lì tu venivi messo in contatto con tutta la tecnologia meccanica del momento. Mio padre ci andava gratis: se ne stava lì, ed era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Ha imparato tantissimo. A quindici-sedici anni. Da Renazzo. Con quel motorino lì: tanta roba eh…
Più di un’ora è volata ascoltando Tonino. Poi ci ha salutati come un uomo d’altri tempi e quasi senza accorgercene non c’era più. C’è una famosa frase di Goethe che dice «ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero». Contro ogni eredità acquisita passivamente, Tonino ha cominciato a riconquistare quella del padre ben prima di quanto convenga alla burocrazia, con la caparbietà di andare anche contro il suo volere. Riuscendo forse a trovare una via d’uscita — o quantomeno un buon compromesso — tra quel detto emiliano che gli ripeteva Ferruccio invitandolo a disfarsi della roba vecchia, e lo sguardo lanciato nel futuro che costituisce l’essenza del nome Lamborghini. Perché il Museo Ferruccio Lamborghini è più un luogo dell’ispirazione che della nostalgia.
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