

Massimo Osti potrebbe suonare come un nome nuovo agli appassionati di motorsport. Meno i nomi delle etichette messe in piedi da quest’uomo difficile da etichettare: C.P. Company e Stone Island in particolare. Ma cos’ha a che fare tutto ciò con la Motor Valley e coi motori in generale? Anche questo non lo diamo per scontato.
Per questo seguiremo un filo che parte da Bologna ─ città in cui Osti è nato e ha lavorato tutta la vita ─ passa per i suoi capi, e attraversa: la Mille Miglia; un progetto non convenzionale di una Vespa; un pionieristico prototipo di un veicolo elettrico da gara; svariate automobili personali, amate e vissute.
In linea con la versatilità della persona, leggerete anche di un visionario progetto di interramento dei viali di circonvallazione di Bologna per far posto a un parco verde, di cataloghi di moda unici nel loro genere, e di come il corso di laurea del DAMS (Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo), con la scena culturale bolognese degli anni ‘70, siano stati linfa vitale per il suo lavoro. Fumetti, musica, politica… Lucio Dalla è solo uno degli incontri fatti nell’atmosfera di quel fermento della città: parleremo anche di questo.
In che modo ricucire questi pezzi sparsi? Ce lo ha raccontato il figlio Lorenzo Osti, direttamente dall’Archivio Massimo Osti, a Bologna. Oggi, in occasione dell’anniversario della nascita di suo padre e dell’inizio della Mille Miglia 2025, vi presentiamo il resoconto di questo intreccio.
A un certo punto nel 1988 mio padre decide di sponsorizzare con C.P. Company la riedizione della Mille Miglia. Non vuole però limitarsi ad appiccicare il logo del brand su un pannello: vuole fare qualcosa di funzionale come i suoi vestiti. Si domanda allora: cosa serve a chi guida queste macchine? Sono macchine scoperte: per prima cosa i piloti hanno bisogno di proteggersi la faccia e gli occhi. Decide allora di mettere le lenti nel cappuccio delle giacche.
Lorenzo precisa che in realtà aveva già provato a fare qualcosa di simile l’anno prima prendendo ispirazione da un cappuccio della Civil Defence giapponese, che aveva però le lenti nel collo: da qui nasce l’Explorer Jacket di C.P. Company. Ci mostrerà questo capo avventuroso poco dopo. Tuttavia il limite era quello di dover tirare sempre su tutta la zip per avere le lenti su. Nella giacca pensata per la Mille Miglia, invece, le lenti scendono dall’alto.
Prese l’idea da una maschera antigas ─ anch’essa conservata in archivio. Dunque, gli occhiali sono la prima funzionalità. Dopodiché, la Mille Miglia è una gara crono, quindi è fondamentale tenere sempre sott’occhio l’orologio. Per permettere ai piloti di guardare l’orologio senza togliere le mani dal volante per tirarsi su la manica, fa un viewer sull’orologio: una lente singola, analoga a quelle del cappuccio, ma di forma circolare. La giacca nasce quindi per la Mille Miglia, ed è un gran successo. Ha un impatto visivo molto forte. Da lì è diventata subito l’icona più forte di C.P. Company. Voleva anche partecipare lui stesso alla competizione. Più di una volta ne abbiamo parlato e ci ha provato. Ma poi alla fine non ci riusciva mai. Lavorava tantissimo, anche al sabato e a volte metà della domenica: non c’era mai il tempo di farlo. Però gli è dispiaciuto.
Lorenzo ammette che sarebbe stato prontissimo a fargli da co-pilota.
Mio padre era appassionato di auto d’epoca, gli piacevano le linee. C’è un suo scritto all’inizio del libro che abbiamo fatto con C.P. Company, “1000 Miglia. Viaggio nella memoria”, che secondo me va citato. Comincia così:
«Cos’erano le carrozzerie una volta se non il vestito del motore come l’abito lo è per il corpo? Partecipare da spettatore e sponsor alla riedizione delle 1000 Miglia, questa corsa che fu a suo tempo ‘epica’, è stata per me una scelta quasi naturale. Una volta c’erano le auto da sera, quelle sportive ed eleganti, le comode dimesse familiari e le chiassose ‘americane’ che cambiavano linee ed accostamenti di colore ogni anno, tanto che potevi distinguere la collezione del ‘54 da quella del ‘53. L’automobile come l’abito, stabiliva l’identità del proprietario; non ne indicava solo lo status sociale, era un ritratto dei suoi gusti e del suo stile di vita. I designer dell’epoca sapevano coniugare funzionalità ed estetica con disinvoltura e fantasia.»
Una scelta estetica che ti definisce non per il prezzo dell’automobile, ma per il gusto. Un’estensione della persona: come scegli un abito, la macchina ti deve assomigliare.
«Cos’erano le carrozzerie una volta se non il vestito del motore come l’abito lo è per il corpo?».
Lorenzo mette sulla scrivania uno dei tanti scatoloni neri disposti negli scaffali dell’archivio, quindi tira fuori un mucchio di fogli e saltiamo dentro un’altra storia di motori.
Negli anni ‘90 mio padre viene contattato da Piaggio per ridisegnare la Vespa. Se vogliamo ci sono ancora un po’ di ingenuità di design ─ non era un designer del prodotto ─ però c’erano delle idee molto interessanti. Innanzitutto, la Vespa si segnava sempre sui bandoni laterali. Per questo ci mise delle patch di gomma per proteggerli, come quelle delle giacche di Stone Island nei gomiti. Poi aveva le frecce applicate nei bordi dello scudo, cosa che si fa adesso coi LED, mentre al tempo era un’idea abbastanza innovativa. C’erano anche un gilet ed un casco che andavano abbinati. Anche nel casco: bordo in gomma per rinforzare i punti che si rovinavano di più. Infine c’è uno di questi modelli ─ erano una serie ─ che invece del bauletto rigido aveva un backpack, uno zaino col velcro. Tu lo attaccavi alla Vespa e quando andavi via te lo staccavi e te lo portavi dietro. Ci ha lavorato tanto, per sei-otto mesi pensava solo a questo. E da qualche parte c’è una lettera…
Lorenzo rovista. Mentre continua a cercare la lettera ci dice che per questa Vespa erano stati girati anche dei contenuti video, delle specie di teaser per presentare il progetto in FIAT. Nello specifico, dei montati di alcune scene da Quadrophenia, cult movie britannico nonché film manifesto di quella sottocultura Mod tanto affezionata alla Vespa. Lorenzo continua a frugare e qualcos’altro lo sorprende.
Questo è interessante… Mio padre allargava sempre un po’ i progetti perché era nato pubblicitario, comunicatore, quindi ragionava in ottica di brand. Molto focalizzato sul prodotto, certo, ma sempre con un ragionamento più ampio di brand. Ad esempio ─ legge un documento firmato Massimo Osti:
«Cenni storici per il futuro: la Vespa anni ‘90 potrebbe essere il punto di partenza per il recupero dell’immagine globale del patrimonio aziendale di Piaggio, dimenticato da tempo e sconosciuto ai più. […] Sono emerse delle valenze collegabili a settori di sicura prospettiva e sviluppo quali: veicoli elettrici, la nautica di serie e gli elicotteri personali».
Fa abbastanza sorridere perché era il ‘90: di veicoli elettrici neanche l’ombra. Per quanto riguarda la nautica di serie ─ mio padre era un appassionato di vela ─ è nata in quegli anni, ma era una cosa abbastanza di nicchia. Poi dieci anni dopo è arrivata Bavaria a fare “il camper del mare”. Un’azienda di camper, appunto, che si è messa a fare barche con la stessa logica. Stampi, vetroresina, standardizzazione, abbassamento dei costi, e ha diffuso la vela come uno sport più democratico. Infine, gli elicotteri personali…
Ride.
Era abbastanza futuribile come idea, però adesso direi che non siamo neanche lontani…
La lettera non salta fuori ma scopriamo di cosa si tratta: uno scambio di opinioni con l’Avvocato Agnelli circa la Vespa in questione. Nel mentre continuano a saltare fuori materiali di ogni tipo: ricerche sulle grafiche del tempo, su quello che facevano i concorrenti… Lorenzo deve auto-imporsi di non approfondire ogni dettaglio e ci confessa quanto gli fa piacere perdersi in questi scrigni di tesori nascosti, anziché ─ con tutto l’amore del mondo ─ parlare solo di vestiti. Passiamo quindi a un altro scatolone, cioè a un altro racconto.
Poi c’è la Boxel P488. Mio padre un giorno decide di sponsorizzare questa auto elettrica da gara. Qui c’è una cosa interessante da dire: lui faceva dei progetti, come dire, sociali ─ oggi si direbbe di corporate responsability ─ che poi diventavano dei contenuti. Adesso è una cosa abbastanza diffusa, ma al tempo era piuttosto inusuale: la moda lavorava esclusivamente con le campagne di moda, con le foto ai modelli e via dicendo… Mio padre invece faceva dei progetti collaterali, e poi ne faceva dei contenuti per i suoi brand. Ad esempio, ne faceva nascere dei cataloghi.
Li tira fuori e ce li mostra.
Erano dei cataloghi di vestiti che erano strutturati in due parti. Una parte riguardava il prodotto ed era sempre e solo still life. Poi c’erano delle parti di contenuto più editoriali. Queste però non erano relative a mondi rappresentati: erano storie. Come oggi si fanno i content collaterali ai brand per inquadrarli in degli schemi, se vogliamo, di valore. Un’altra cosa importante da dire su questi cataloghi è che venivano venduti in edicola a cinquemila lire, in un formato sporgente verso l’alto, tale da renderli ben visibili dietro o davanti l’altra merce esposta. Nessuno all’epoca vendeva i cataloghi di moda.
Facciamo una deviazione sui capi di Massimo Osti per mettere in luce un’altra caratteristica unica dei suoi cataloghi.
Una delle caratteristiche principali del suo lavoro dal punto di vista del prodotto è il tinto in capo. Ovvero: la procedura di tingere un capo finito. Cosa che consente di ottenere sfumature di colore molto sofisticate e dare al capo un’aria un po’ già indossata. Voleva fare la stessa cosa nella grafica, perciò usava questo sistema: con una fotocopiatrice a colori ─ al tempo non di grande qualità ─ fotocopiava le foto al fine di “sporcarle”, farle perdere di risoluzione, bruciarle… Praticamente le faceva diventare “sbagliate”. Un effetto ricercato per dare questa patina ai materiali stampati, simile a quella dei suoi capi.
I capi di mio padre hanno funzionato in certi momenti storici, perché sono stati adottati da certe sottoculture: in primis la Bologna anni ‘70, con la sua scena alternativa legata al DAMS ed al fumetto. Poi ha fatto un salto ed è stata adottata dai cosiddetti “paninari”, in particolare Stone Island. Dopodiché ha fatto un altro salto ancora ed è stato adottato dai casuals inglesi, in particolare i tifosi di calcio del nord dell’Inghilterra. E poi ancora dalla scena rap inglese grime, quindi da quella americana ─ grazie a Drake ─ e del sud della Francia. Per tanto tempo abbiamo cercato di capire come mai sono avvenuti questi passaggi tra strutture così diverse e lontane. Lavorando col semiologo Luca Libertini, collega e amico, e con un professore dell’Università di Westminster, Andrew Groves, siamo giunti alla conclusione che forse, uno dei motivi principali per cui tutto ciò è avvenuto, è che mio padre non rappresentava un lifestyle. Cosa che facevano invece quasi tutti gli altri marchi: volevi essere così, allora compravi quel prodotto. Modelli strafighi su uno yacht, o a cavallo nelle praterie del west, e via dicendo… tutte le varie declinazioni di questo stile comunicativo, più o meno aspirazionali o partecipative. Mio padre, al contrario, ha sempre rappresentato il prodotto. E il prodotto, rappresentato in questo modo, rimane aperto a interpretazioni diverse. È un po’ il concetto dell’opera aperta di Umberto Eco. Funziona in questo modo: se tu non rappresenti tutto il mondo finito ma solo l’oggetto, un paninaro ci vede una cosa, un casual un’altra. E per entrambi può essere ugualmente rilevante.
Torniamo a parlare della Boxel P488 da cui è partito il nostro excursus sui cataloghi.
Nel 1987, l’ingegner Pasquini aveva progettato questa macchina e cercava dei finanziatori. Mio padre si innamora del progetto e lo finanzia. Ci fu quindi una gara a Roma, dove gareggiavano solo prototipi (siamo infatti agli albori delle macchine elettriche). La Boxel andava benissimo. Stavano per vincere contro i colossi dell’elettronica, ma all’ultima curva, sfortunatamente, sono stati spinti fuori e sono andati a sbattere.
Pasquini è quello che poi ha fatto i Boxel appunto: delle specie di parallelepipedi elettrici con le ruotine che facevano le consegne e che hanno girato a Bologna per tanto tempo. Erano fatti apposta per durare tanto, grazie alla loro meccanica estremamente semplice, tutta fatta con componenti standard. Per questo motivo sono andati avanti vent’anni a ripararli con cose che praticamente potevi trovare in ferramenta, anche molto dopo che la loro produzione era cessata.
A proposito di Bologna…
Da bolognese, c’è un altro progetto che voglio farvi vedere e che mi ha fatto cadere la mascella quando l’ho visto. Non è un progetto direttamente di mio padre, ma lo ha sponsorizzato e supportato quando ha fatto parte del Consiglio Comunale, all’inizio degli anni ’90. Si tratta del “Progetto Toro”, dal nome della figura geometrica. Questo per me è mindblowing: un progetto per interrare completamente i viali di circonvallazione di Bologna e fare quattro piani sotterranei: uno con la strada, uno con i parcheggi, uno per il magazzino, uno per i negozi, e sopra tutto un parco. Era stato ideato dall’Ingegner Petazzoni. Al tempo c’era forse più traffico di oggi, ed era stupenda per me l’idea di realizzare un parco che cingesse la città. Perché mio padre si imbarcò in tutto questo? Per suo credo personale: aveva molto a cuore i temi della sostenibilità e della vivibilità della città. È sempre stato molto motivato in questo senso.
Lorenzo ci accenna anche del progetto che Massimo Osti ha realizzato con C.P. Company per la Rainforest Foundation. Venne girato un documentario con Sting e Raoni, capo della tribù Kayapo. Fu anche realizzata una t-shirt commemorativa. Il fine era quello di contribuire alla presa di consapevolezza mondiale sul problema della deforestazione, e di sostenere materialmente le tribù amazzoniche.
Fra l’altro il Progetto Toro comprendeva anche tutto il tema del project financing. L’idea era che sarebbe dovuto essere a costo zero per il Comune perché gli affitti degli spazi commerciali nel piano dei negozi avrebbero finanziato il tutto. Addirittura avevano studiato un sistema per realizzare il progetto senza interrompere la circolazione. A mio avviso era un progetto titanico ampiamente sovradimensionato per la città. Però mi è sempre piaciuto perché era molto visionario. 1993. Come potete vedere, per ognuno di questi progetti collaterali a quelli dei suoi brand mio padre dedicava tantissime energie.
Chiediamo a Lorenzo se in mezzo a tutti questi scatoloni non gli capiti mai di scoprire cose che non ha mai visto. Continuamente, ci dice lui, tant’è che ne ha messe da parte un paio prima del nostro arrivo.
«Aveva molto a cuore i temi della sostenibilità e della vivibilità della città. È sempre stato molto motivato in questo senso».
Dopodiché iniziamo a parlare delle automobili personali che hanno scandito la vita di Massimo Osti.
Mio padre ha sempre avuto la passione per le cose del passato. La prima auto che ha preso è stata una Citroën Traction Avant che ha recuperato nel nord della Francia: l’ha guidata fino in Italia, tant’è che il secondo marchio di mio padre, Boneville, prende il nome dal luogo in cui durante questo viaggio sono rimasti a piedi due giorni. Poi quella a cui è stato sicuramente più affezionato ─ perché è stata con noi tantissimo tempo ─ era la Porsche 356 Cabrio, gialla banana. Un colore assurdo, a me all’inizio proprio non piaceva. Col tempo ho imparato ad apprezzarlo. Macchina a cui mio padre non mi ha mai fatto avvicinare: gli ho chiesto di guidarla un milione di volte ed era sempre un «no» categorico. L’ha tenuta per tanto tempo e l’ha fatta restaurare tre, quattro volte. Poi, dopo tanto, l’ha venduta: non riusciva mai a usarla e non la teneva come doveva. Stava ferma sei mesi, veniva fuori un problema, magari entrava l’acqua, marcivano i sedili, e rifai i sedili… era tutto un lavoro e non riusciva a godersela molto.
Pare che Massimo Osti non avesse occhi solo per la Mille Miglia:
Guardavamo la Formula Uno, gli piaceva. Come gli piacevano le auto in generale. Io ero piccolo, quindi non mi ricordo, ma mia mamma mi ha detto che abbiamo avuto in sequenza: due Citroën DS Pallas, prima una poi l’altra ─ amore per le linee ─ poi si è innamorato di questo macchinone quando ha cominciato a guadagnare: un Jaguar Daimler Double Six a benzina, con due serbatoi. Finivi il pieno in uno e poi cominciavi con l’altro. Giuro che mi ricordo che quando andava forte io e mia sorella giocavamo a guardare il livello della benzina che scendeva. Era il periodo in cui faceva Bologna-Crevalcore tutti i giorni.
Anche guidare gli piaceva molto. Guidava veloce. La cosa divertente però è che gli piacevano queste macchine, ma allo stesso tempo si vergognava. Come ho detto, guidava veloce, ma quando guidava il Jaguar andava lentissimo per i suoi standard. Piuttosto che essere fermato in pubblico con la macchina costosa dopo aver fatto qualche cazzata, si sarebbe seppellito. Infatti, dopo averne presa un’altra è passato… a una Micra: con quella finalmente poteva stare tranquillo e divertirsi.
Abbiamo avuto anche una Honda Civic 1600 a 16 valvole che gli è piaciuta molto ─ e anche a me ─ tagliata dietro, piccolina. Era come guidare un go-kart. Tant’è che poi l’ho presa anch’io: entrambi l’abbiamo comprata usata. Però mio padre non ha voluto prendermi il 16 valvole perché secondo lui andava troppo forte. Poi dei Range Rover, uno dopo l’altro, quando ancora erano una cosa esotica. Non fosse che a un certo punto per mio padre consumava troppo e allora ha preso questo Toyota 4runner che io ho camperizzato facendoci vacanze per un sacco di tempo. Era molto contento e stupito di quanto poco consumasse. Parliamo di un 3000 a benzina che oggi non potrebbe neanche circolare, ovviamente erano anni molto diversi. Erano macchine che gli servivano perché viveva in campagna e spesso nevicava. Insomma, non è mai stato attaccato a delle macchine per una questione di status, ma per funzione.
‘Funzione’, una parola che ritorna.
Ha avuto anche la Lada Niva, un’altra macchina importata: c’era un po’ quest’idea di fare una ricerca per avere delle cose diverse, che non vedevi in giro. Una volta provammo anche ad importare dagli Stati Uniti una Cadillac azzurra degli anni ’50, ma si rivelò troppo complicato.
Fantastichiamo su che macchina avrebbe guidato oggi Massimo Osti, e Lorenzo azzarda una macchina cinese che costa poco, va benissimo e chissenefrega. Aggiunge che suo padre per la Cina aveva una passione.
«Piuttosto che essere fermato in pubblico con la macchina costosa dopo aver fatto qualche cazzata, si sarebbe seppellito».
Quello che ha fatto mio padre di diverso da quasi tutti gli altri nel mondo della moda, è dovuto al fatto che lui non aveva una formazione accademica canonica. Aveva un approccio molto diverso. Come vi ho detto, nasce grafico pubblicitario. Non partiva da un’idea astratta per poi metterla a terra. Era un creativo pratico. Il suo era un approccio bottom-up. Prendeva un capo, e pensava: «va bene, questo mi piace, però mi piace di più quella tasca», allora la fotocopiava ─ letteralmente, come potete osservare sotto ─ e l’attaccava per vedere come sta, «mi piace di più quella zip», e faceva la stessa cosa. Sempre sotto una lente funzionale, e con una domanda sempre stampata in testa: «cosa serve a questo capo?». Partiva da forme già esistenti, e le trasformava. Il progetto della Vespa che vi ho fatto vedere esemplifica bene tutto ciò: per trasformare il PK dell’epoca dalle linee squadrate, ha ripreso in mano dei vecchi modelli più tondi, e a questo ha aggiunto l’esigenza di rendere il tutto più funzionale (vedi le patch sui bandoni laterali, lo zaino che si stacca etc.). Potremmo definire questo processo creativo “trasformativo”.
Mio padre è nato povero, orfano, ha perso il fratello da giovane: ha avuto una vita difficile. Vedere ciò che era riuscito a costruire da solo con le proprie mani lo rendeva orgoglioso. Ma questo lo rendeva fondamentalmente una persona generosa, non era uno né che sfoggiasse né che si gratificasse delle cose materiali. Per lui il lavoro era lavoro. Non era passione. Faccio questa cosa? Mi viene bene? Guadagno? E allora la faceva con una determinazione, con una Osti-nazione pazzesca. Però era veramente solo duro lavoro: mille volte gli chiedevi «ma ti piace?»: «è lavoro», rispondeva lui. Per il resto mio padre era una persona molto timida, molto schiva, e ripeto, molto generosa.
«Per lui il lavoro era lavoro. Non era passione. Faccio questa cosa? Mi viene bene? Guadagno? E allora la faceva con una determinazione, con una osti-nazione pazzesca».
Parliamo quindi della grande amicizia che legava Massimo Osti e Lucio Dalla e ci domandiamo se i motori non abbiano avuto un ruolo anche qui. Perché? Perché Lucio Dalla nel ‘76 ha pubblicato un album intitolato “Mille Miglia”, e perché nella nostra ultima Guida su Bologna in stile Motor Valley ci siamo imbattuti in una bellissima fotografia di Dalla appoggiato su una Jaguar.
Bellissima questa. C’è stato un momento in cui forse l’avevano presa tutti e due. Chissà…
Lorenzo era troppo piccolo per ricordare qualcosa che possa sostenere con certezza la nostra tesi, tuttavia gli verrebbe da dire che sì, è probabile che l’immaginario delle quattro ruote sia stato una delle tante strade che hanno unito Dalla e suo padre.
Sicuramente si sono influenzati a vicenda.
Un’altra chicca che si aggiunge agli incatalogabili progetti paralleli di Massimo Osti: Lorenzo ci racconta che suo padre ha curato la copertina dell’album di Dalla “Cambio” (con una fotografia di Luigi Ghirri, fotografo di cui vi abbiamo parlato poco tempo fa), mentre Dalla dal canto suo ha fatto da testimonial per un catalogo di C.P. Company. Il brand gli ha inoltre realizzato ad hoc una camicia di seta lunga con un pattern di stelle che ha usato in molti concerti. Ciliegina sulla torta, un giubbotto di Stone Island con la pelliccia dentro: Dalla se lo metteva sempre al contrario e Massimo Osti finì per farglielo direttamente al contrario.
Restando nell’atmosfera di quegli anni, Lorenzo ci parla dell’importanza del DAMS e della sua funzione catalizzatrice per i più vari talenti del panorama bolognese degli anni ‘70.
In quegli anni una delle fortune enormi che ci sono state a Bologna è stato il DAMS. Il DAMS aveva musica, arte, cinema e teatro. Non era verticale su una singola arte. In più ─ com’è organizzata l’Università di Bologna ancora adesso ─ le varie sedi della facoltà erano tutte mischiate nella città, non c’erano campus separati. C’era quindi molta contaminazione tra studenti di diverse discipline. C’è uno scritto del Professor Roberto Grandi, col quale mi sono laureato all’Università in comunicazione di massa, che sostiene che sia stata proprio la contaminazione delle arti a creare questo fermento creativo e fertile. In più c’era uno spirito di improvvisazione molto forte, per il quale tu provavi a fare le cose.
Subito dopo questa parentesi artistica, Lorenzo ci lascia fare una visita guidata dell’archivio mentre va a prendere il figlio a scuola. Quella su Massimo Osti è stata una chiacchierata sorprendente, che ha messo in luce aspetti noti e meno noti della vita di un pragmatico visionario. Se la sua eredità materiale e spirituale ancora oggi continua a infondere ispirazione ben oltre il campo della moda, è soprattutto grazie al lavoro di Lorenzo e della sorella Agata, che continuano a dargli voce. In parte grazie all’archivio che hanno messo in piedi, in parte grazie a queste chiacchierate e a tante altre opere di comunicazione (libri, riviste, video, social, mostre).
Lorenzo rientra poco più tardi, e a tour finito, ci salutiamo. L’ultima immagine prima di andarcene è quella di suo figlio: un bambino seduto in una scrivania dell’archivio con dei fogli bianchi davanti. Al suo fianco un quadro raffigurante il volto di Massimo Osti lo osserva. Con una certa urgenza, chiede dei colori a Lorenzo, che glieli allunga subito. Sembra che anche nel ragazzo ci siano delle visioni e del pragmatismo.
Territorio coinvolto: